Non so se ve ne siete accorti, ma da un po’ di tempo Google è più intelligente.
Con l’implementazione del Knowledge Graph, l’ultimo aggiornamento rilasciato in Italia il 5 dicembre scorso, il motore di ricerca di Mountain View non si limita più a restituire una lista di risultati sulla base della corrispondenza delle parole chiave contenute nella pagina web con la query di ricerca dell’utente, ma analizza contesti, distingue referenti, incrocia la singola richiesta con lo storico delle ricerche precedenti al fine di restituire il risultato più “intelligente”.
Insomma, Google non offre più risultanti, risponde.
Ma per rispondere è necessario che il motore di ricerca “comprenda” la richiesta dell’utente, cioè penetri lo spessore semantico della parola, ovvero sia in grado di associare, a quella che rimane per ogni cervellone elettronico una semplice stringa di caratteri casuali, un referente reale, cioè un oggetto della realtà, cogliendo il complesso sistema di relazioni in cui quel referente è inserito. Una cosa decisamente molto umana.
Il grafo della conoscenza
Come fa Google a fare tutto ciò? Come fa a dare senso alle parole, a capire cioè che un animale è un animale nella stessa maniera in cui lo capisco io, senza limitarsi semplicemente a verificare che la stringa di lettere digitata dall’utente nel modulo di ricerca sia identica a quelle archiviate nel suo database? È una domanda decisamente interessante, perché dietro di essa si cela la cara vecchia questione del significato e della significazione.
La risposta, nel caso di Google, è contesto, correlazioni, storico delle ricerche.
L’idea alla base del Knowledge Graph è la creazione di un enorme grafo della conoscenza in cui sono inseriti gli oggetti del mondo reale e il sistema di relazioni esistente tra di essi. Un dato singolo è semplice informazione. Informazioni correlate e gerarchizzate sono conoscenza. Google ha deciso d’ora in poi di strutturare i suoi database come bacini di conoscenza.
Per la creazione del Knowledge Graph, il motore di ricerca di Mountain View ha “studiato” oltre 570 milioni di oggetti e 18 miliardi di relazioni, contando su risorse pubbliche come Freebase, Wikipedia e il CIA World Factbook.
Con questa nuova logica di costruzione dei risultati, Google passa quindi dall’essere un motore di ricerca basato sulle informazioni ad un motore di ricerca basato sulla conoscenza, proiettandosi nell’universo della ricerca semantica.
Se ora provate a cercare ”Leonardo Da Vinci”, Big G è in grado di associare alla semplice stringa di caratteri un universo di significati che danno corpo all’oggetto reale Da Vinci: data, luogo di nascita, opere, etc. Provate a guardare nella colonna di destra.
Allo stesso modo se cerchiamo “Parma”, nella colonna di destra il motore ci indirizzerà verso i tre referenti associati al nome: la città, la squadra di calcio e l’università. Risultati che nella lista ordinaria potrebbero anche non comparire affatto.
Come cambia la SEO?
L’evoluzione di Big G ha chiaramente enormi conseguenze sulla Search Engine Optimization (SEO), la tecnica di ottimizzare contenuti, struttura e link popularity di un sito web al fine di posizionarlo tra i primi risultati per una determinata parola chiave.
Lungi dal decretare la fine della SEO, il Knowledge Graph completa la svolta già inaugurata dagli ultimi due aggiornamenti (Panda e Penguin) finalizzati a privilegiare i siti ricchi di contenuti originali, di qualità e user-oriented.
È chiaro che, se Google è diventato un po’ più umano, allora sarà necessario scrivere per gli utenti piuttosto che per i motori di ricerca. Questo significherà liberarsi sempre più dal giogo delle parole chiave a favore della contestualizzazione e correlazione degli argomenti.
Daniele Crocelle
Articolo distribuito con licenza cc-by-nc-sa
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